WINDOW SHOCKING

di Giovanni Scibilia

Qualche settimana fa, a Parigi, sono andato a sbattere contro la vetrina di una nota galleria d’arte. Brutalmente. L’ho avvistata dall’altro lato della strada e ho attraversato velocemente, quasi di corsa. Non ho visto il vetro (dei cristalli antiriflesso a tutt’altezza davvero straordinari) e ho immaginato al suo posto ci fosse il vuoto, l’accesso aperto alla galleria. Attratto dalla scultura di Sol Le Witt in bella mostra, mi sono letteralmente slanciato verso l’interno, sbattendo la testa e crollando a terra, subito soccorso dai passanti, con relativo senso di vergogna. Mi hanno fatto accomodare dentro la sala, spiegandomi che il celebre gallerista italiano aveva voluto quello spazio parigino il più possibile affacciato sulla strada e aperto sulla città. Fin troppo, ho pensato gemendo.Mi chiedo se qualcuno potrà mai sbattere contro le vetrine di co_atto. Queste vetrine, si sa, evitano la frontalità, scorrono di fianco a chi cammina nel lungo corridoio di Garibaldi, luogo di attraversamenti veloci e distratti, spazio fluido per definizione, non a caso: Passante. Ci si potrebbe augurare che qualcosa, nelle vetrine, interrompa il cammino, agganciando il passante perso nei suoi pensieri, ma questa speranza, per quanto auspicabile, rischia di svilire il senso autentico delle vetrine. Esse non sono, infatti, delle shopping windows, delle cortine trasparenti che permettono alle merci di mostrarsi e attirare per il loro scintillio. A nessuna opera delle vetrine di co_atto  è chiesto di urlare, anzi spesso mormorano, si mimetizzano o, addirittura, tacciono. Curiosamente, esse sfuggono sia al contatto frontale, vis-à-vis, della galleria o del museo (che può essere molto traumatico, come il mio racconto autobiografico iniziale in qualche modo mostra), sia alla vettorialità di quello mercantile, tipico delle vetrine degli spazi commerciali, che lavorano sui valori di seduzione della merce e fanno entrare la vetrina di diritto nel market space.Cosa sono allora le vetrine di co_atto? E a cosa servono, se servono a qualcosa?Faccio un’ipotesi. Provo a immaginare che esse siano come le “cornici” di cui parla Kant nella Critica del giudizio. Le cornici kantiane, come mostra magistralmente Derrida in La verità in pittura, non fungono da semplici supporti che permettono all’opera di essere protetta e mostrata, esse sono, piuttosto, dei parerga, ovvero qualcosa che, pur restando esterno all’opera (ergon), è strutturalmente legato all’opera stessa. Fungono, cioè, da supplemento che dà all’opera ciò che le manca, pur rimanendo estrinseco ed estraneo. È evidente la struttura invaginata e paradossale del parergon, il suo essere costantemente messo fuori, espulso dal sistema dell’opera, pur permettendo, di fatto, al sistema di esistere.Mi sembra che le vetrine di co_atto possano ambire a questo tipo di statuto paradossale: marginali rispetto al sistema dell’arte (non galleria, non museo, non collezione), ne evocano i meccanismi di fruizione per interrogarli e rimetterli in discussione.Gli artisti che espongono a co_atto, e i curatori con loro, non possono prescindere dalla paradossalità delle vetrine – sempre troppo strette, troppo lunghe, troppo basse -, non possono dimenticarsi delle loro luci piatte e fredde, degli stipiti in alluminio che cingono le vetrine, tagliandole implacabilmente. Ma nemmeno possono evitare di chiedersi che senso abbia mostrare ciò che stanno esponendo proprio lì, in un anonimo passaggio della metropolitana milanese, Milano capitale del XXI secolo italiano, Italia paese di…In nessun altro luogo espositivo, a mio ricordo, il “fuori” lavora costitutivamente il “dentro” come nelle mostre di co_atto e questo, in primis, proprio attraverso quel parergon obbligatorio che sono le vetrine con le loro infinite costrizioni[1].“Un parergon viene contro, di lato e in più rispetto all’ergon, al lavoro fatto, al fatto, all’opera ma non finisce di lato, tocca e coopera, da un certo fuori, all’interno dell’operazione. Né semplicemente fuori né semplicemente dentro. Come un accessorio che si è obbligati ad accogliere al bordo, a bordo.” (J.Derrida, La verité en peinture, Flammarion, Paris 1978, p.63)E non si tratta, si badi bene, di una bizzarria, di una denuncia o di una provocazione (come, ad esempio, poteva essere la Wrong Gallery di Cattelan, Gioni e Subotnick) perché le vetrine di co_atto sono in sé uno spazio pubblico e istituzionale, amministrato, normato e gestito dalla città stessa. È solo il tipo di cura di co_atto e il lavoro degli artisti che vengono invitati a esporre che permettono la trasformazione delle vetrine in parergon, con tutte le conseguenze che ne derivano.D’altra parte, anche gli spettatori, professionisti della visione e non, sono travolti dall’effetto parergonale delle vetrine. Abituati a guardare le opere d’arte di fronte, all’interno di una specifica ritualità che sacralizza l’opera e mostra quanto arte e religione abbiano molto a che fare (Hegel docet), i fruitori delle mostre di co_atto fanno in primo luogo esperienza (quando càpita) dell’“arresto”, quel momento in cui il flusso indisturbato, noncurante, del procedere quotidiano inciampa in qualcosa che letteralmente interrompe il cammino e attiva un altro stile percettivo (quando tutto funziona). Lasciano così, anche solo per un momento, il “fuori” e si avventurano in quella terra di mezzo che sono le vetrine e quello che sta loro “dentro” in quel momento. Molto più che in altre occasioni espositive, però, sono costretti dal dispositivo a portarsi anche, dietro e dentro, il “fuori” da cui vengono e in cui loro, passanti, ancora sono. Le vetrine di co_atto sfogliano la soglia che divide il dentro e il fuori, rendendola fragile, porosa e non-una.Che l’arte abbia molto a che fare con questa rivoluzione percettiva, attorno a cui le vetrine di co_atto si organizzano, ce lo insegna Jacques Rancière che vede in tutto ciò una chance emancipativa fondamentale. Personalmente condivido il suo punto di vista, credo sia questo che l’arte  , provocando piccoli o grandi choc percettivi che spostano l’asse del mio sguardo, permettendomi di vedere altro e in altro modo. Le vetrine di co_atto di per sé mobilitano il soggetto-che-guarda. Adibite a spazio espositivo di un certo tipo, mostrano che egli non è uno ma una molteplicità di sguardi che lo attraversano. Chi arriva a guardare le vetrine di co_atto, non solo a vederle, altera la propria visione monofocale aprendosi a una visione quantomeno strabica, non fosse altro che per il loro scorrere sui due lati del corridoio, capace di sdoppiare i profili delle cose e rendere meno ovvi i fenomeni. È proprio quello che fa ogni vera operazione artistica: porta il soggetto a perdere la propria stabilità (che è comunque già una costruzione culturale) e lo apre a nuovi linguaggi e a nuovi modi di vedere e percepire il mondo. Mostra che cambiare, trasformare, rivoluzionare non solo è possibile ma è una necessità vitale.Come ricorda il mio ematoma parigino sulla fronte, ciò che le vetrine d’arte provocano comporta una certa dose di rischio che credo valga la pena di correre per continuare  Che non vuol dire, cioè, solo cibarsi, riprodursi, acquistare ma anche e soprattutto far vacillare luoghi comuni, ad esempio quello che prevede che in un corridoio del metrò non valga certo la pena soffermarsi troppo.

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[1] Iconica da questo punto di vista la recente mostra curata da Cecilia Mentasti per co_atto (18 artworks that couldn’t fit in a window) dove il concetto curatoriale (diciotto artisti espongono opere troppo “grandi” per stare nelle famose vetrine, fatto che comporta un paradossale taglio/ riduzione delle opere stesse) allude proprio a quel surplus di ergon che le vetrine vengono a supplire: esse stanno al posto di qualcosa che (qui, forzatamente) manca. Ciò mostra, fra l’altro, che l’opera d’arte non si basta, è, cioè, tutt’altro che autonoma (…).