Il silenzio come coCURAtela

di Serena Bertolucci

I mesi appena trascorsi, con quelle loro tempistiche in realtà solo apparentemente lente, hanno indotto a più di una riflessione intorno al ruolo della cultura, alla sua necessità, alla sua quotidianità. Anche le istituzioni culturali – soprattutto le istituzioni culturali – sono precipitate nella repentina necessità di mantenere un rapporto con i propri frequentatori, improvvisamente trovatisi nell’innaturale condizione di non poter avere più contatti diretti né con il prodotto artistico, né con la comunità di riferimento. Anzi, a dire il vero, molte istituzioni si sono trovate nella condizione di dover costruire un nuovo rapporto con un pubblico che, in contrapposizione alla smaterializzazione del prodotto artistico e dell’esperienza artistica, si era improvvisamente materializzato, al di fuori degli spazi canonici, e che reclamava nella propria vita, nonostante tutto, la presenza della cultura.

Quel bisogno nascosto è divenuto evidente nel momento stesso in cui si pensava non avesse possibilità di sopravvivere, dando forma ad un ossimoro straordinario che ha costretto, finalmente, le istituzioni a adoperarsi oltre il confine, sfruttando una sorta di stargate fino a prima mai pensato, mai immaginato per entrare nella casa di ognuno. È stato il momento delle parole, tante parole, alla ricerca di un linguaggio certamente non consueto nei musei, un linguaggio che fosse più efficace nella lontananza che nella vicinanza e che, proprio per questo, per la prima volta, si interrogava sullo spazio, virtuale o reale che fosse, che separava il visitatore dalle opere. Sono stati trovati degli abissi: difficoltà di comprensione e di accessibilità erano barriere invalicabili nel cammino verso il museo, così come l’idea che la “sacralità” del luogo imponesse una complessità di messaggio, come se la semplificazione – confusa in maniera arbitraria e castrante con la banalizzazione – contribuisse alla fine di un incanto e non ad aumentare la magia che ha tra i suoi esiti migliori l’integrazione, l’uguaglianza, la cittadinanza, l’inclusione come parte integrante e migliore di un processo di crescita sociale.
Per questo, a Palazzo Ducale, abbiamo provato a seminare parole, attraverso tutti i mezzi che ci venivano concessi; le abbiamo proprio pensate come semi e trattate con cura e attesa, perché è proprio questo che la cultura muta dall’agricoltura (con cui condivide la medesima etimologia): la consapevolezza che siano necessari tempi e attenzioni costanti per produrre i frutti migliori.
E per noi il frutto migliore era il silenzio. Bisogna arrivarci al silenzio, facendo di far sedimentare le parole. L’occasione per il raccolto è stata una mostra singolare e folle; scegliendo di far diventare il distanziamento interpersonale un valore nel godimento dell’arte, abbiamo esposto le ninfee di Monet in una stanza dove ogni visitatore aveva a disposizione cinque minuti da solo con il capolavoro: una persona con un’opera, in silenzio. Il visitatore non era più un semplice spettatore, ma co curatore del progetto perché in quel momento diventava egli stesso creatore di contenuti, in quella dimensione silente che contribuiva a rendere rarefatti tempo e spazio, che sostituiva le parole di altri con il rumore del proprio respiro, con i battiti del proprio cuore, in sintesi con la propria umanità che era parte integrante dell’esposizione.
Nella stessa maniera, ognuno era chiamato ad essere cura di sé e per sé, ritrovando motivazioni, mancanze, ricordi, sensazioni, pensieri e, con loro la necessità di esprimersi. Ed è così che il cerchio si chiudeva andando a ritrovare le parole, per potere ricominciare il viaggio.
Ma non era impresa facile attraversare il silenzio. I bambini, anche in questo, ci hanno dato una bella lezione: li abbiamo visti fingere di nuotare sulla moquette, guardare incantati i colori, mettersi a disegnare, costringere gli adulti a non parlare, come se per loro il vuoto non fosse imbarazzo, ma opportunità. Ci hanno insegnato a guardare al silenzio come ad una grande occasione. Per i grandi, a volte, l’esperienza è stata più complessa perché complesso è cedere all’abbandono; è accaduto di dover soccorrere il visitatore con un sistema attraverso il quale poteva scegliere di evadere da quella condizione, ascoltando una melodia o delle parole, o magari leggendo delle suggestioni letterarie o delle informazioni.  Abbiamo dovuto regalare suoni ulteriori perché anche i frutti più acerbi potessero arrivare a maturazione. Il processo si è via via affinati e con questo anche la fiducia nel silenzio. E sono stati sorrisi, lacrime, sospiri, brividi, sguardi, passioni, smarrimento. Fine e inizio, insomma arte.

Biografia

Serena Bertolucci, laureata all’Università di Genova e specializzata presso l’Università Cattolica di Milano, è storica dell’arte con esperienza nel campo della conservazione, valorizzazione e management del patrimonio e particolare interesse nel campo dell’interpretazione del bene culturale. Selezionata dalla prima call nazionale per la direzione di musei autonomi statali, dal 2015 al 2018 dirige Palazzo Reale di Genova e la Rete Museale della Liguria con la quale nel 2018 ottiene la più alta percentuale di crescita del pubblico in Italia grazie a progetti ed iniziative di conservazione, restauro, mostre e riaperture. Dal 2019 è direttore di Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura.