Percezione, sintesie silenzio
di Giacomo Rota
«Le sirene possiedono un’arma più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non dal loro silenzio».
È Franz Kafka a scrivere queste parole, in un racconto breve del 1917 intitolato Il silenzio delle sirene. Ulisse è legato all’albero maestro della nave. Ha distribuito ai compagni della cera e ricontrolla il pesante cordame che ne fascia la vita e le spalle possenti. Nelle sue pupille si specchia ancora l’ombra di un enorme cavallo di legno e il bagliore delle mura di Ilio in fiamme. Fu proprio alla vista di quello sguardo che le sirene decisero di non sedurre più, opponendo al loro canto il silenzio. Odisseo vide le bocche socchiuse, gli occhi pieni di lacrime, e credette che questo facesse parte di una melodia che pur risuonando tutto intorno lui non udiva. Possibile che Odisseo, il più astuto tra gli uomini, non si sia accorto che le sirene in realtà tacevano? Forse se ne accorse, conclude Kafka, ma oppose a questo silenzio un’altra delle sue finzioni, raccontando a uomini e Dèi di un canto che in realtà fu muto.
Le brevi righe di Kafka sembrano suggerire che il silenzio sia un’esperienza limite per l’orecchio umano, qualcosa a cui persino Odisseo dovette opporre la finzione di una melodia. Ad una prima considerazione, sembra infatti che facciamo un uso metonimico del silenzio: usiamo il termine in senso traslato, indicando in verità lo spostamento di percezione tra due sfere sonore qualitativamente differenti. Nella quotidiana ricorrenza di suoni, spesso disturbanti e cacofonici, ci avvediamo talvolta di dover ricominciare dal silenzio, portando i nostri passi su un sentiero di montagna, per boschi o radure. Ci fermiamo per riprendere fiato ed ecco che il silenzio diventa qualcosa che udiamo. Quello che è in realtà avvenuto è lo spostamento della nostra attenzione percettiva verso una qualità sonora che si presenta come inedita o rara: c’è il rumore delle fronde degli alberi, il ronzio di un insetto, il pulsare del nostro battito cardiaco, il crepitio del selciato sotto i nostri passi. Diamo senso ad una serie di elementi (non solo acustici) che altrimenti sarebbero sensazioni prive di attenzione.
Questa capacità di dare senso alle nostre impressioni sensoriali è alla base della sfera percettiva: la percezione è infatti un atto della coscienza strutturato e indirizzato verso un oggetto. Attraverso di essa semplici sensazioni (uditive, tattili, visive ecc.) ricevono una sintesi che fornisce una rappresentazione di una porzione di mondo. Il termine rappresentazione è piuttosto equivoco e la sua analisi coincide con buona parte di quella filosofia che va sotto il nome di fenomenologia. Uno dei modi di intendere la rappresentazione è quello di considerarla la “materia” di ogni nostro atto intenzionale. C’è infatti una differenza precisa tra l’atto generico di percepire e il percepire qualcosa. Quando ci soffermiamo sul silenzio che ci circonda stiamo in realtà intenzionando qualcosa di preciso: quel fruscio di fronde, quella voce tra le altre. La rappresentazione come materia indica non solo quale oggetto sia inteso dall’atto, ma anche in che modo questo sia inteso: essa dà la costanza del riferimento del mio atto, permettendo di isolare la voce del mio interlocutore tra le altre, permettendo di direzionare il mio sguardo su quel volto in mezzo alla folla.
Se la mia coscienza è sempre coscienza di qualcosa, il riferimento oggettuale che la rappresentazione permette è un riferimento continuo. Tutto il nostro orizzonte percettivo è determinato da un’esperienza interiore del tempo: il silenzio che odo ha una durata; la percezione visiva della mia mano ha una sua estensione temporale. Sembra infatti che la coscienza intenzionale sia in grado di costruire continue successioni, procedendo per sintesi più o meno complesse. Queste sintesi hanno una profondità temporale giacché non sono costituite “solo” dalla percezione presente, intesa come percezione che è qui e ora. Interviene anche una memoria primaria, che corrisponde alla percezione di suono che c’era prima e che poco fa è svanito nel silenzio. Trattenendo questa assenza, la coscienza si dispone a sua volta al tipo di percezione che sta per subentrare, all’accordo che ancora deve risuonare. L’esperienza interiore di tempo rivela che il solo presente è un’astrazione: dentro di esso agisce già, di continuo, la forza del passato e la disposizione di sintesi futura.
La costruzione di una simile successione risiede in una dimensione originaria e ancestrale, che accompagna l’umanità fin dai primi istanti di vita: l’esperienza della voce. Attraverso la voce materna il bambino apprende delle fasi ritmiche (una ninna nanna, una filastrocca, la cadenza degli accenti), che, come scrive Carlo Sini, stanno tutte in quel «battere e levare, battere e lavare, uno/due, uno/due» [L’incanto del ritmo, Tranchida, 1993] che costituisce ogni ritmo. La prima e più elementare struttura di questo battere e levare è quella del respiro, che per l’appunto dà il ritmo alla voce, all’avvicendarsi di suono e silenzio, inspirazione ed espirazione.
L’esperienza del silenzio, così intrinsecamente legata al suono, è quindi un’esperienza originaria, che già da sempre è cominciata e che continuamente si ripropone nel riferimento temporale della nostra coscienza. In altre parole, si ricomincia sempre dal silenzio, dal suono che lo anticipa, da quello che lo segue, e dal nuovo silenzio che subentra. L’esperienza del silenzio è anche un modo per leggere la connessione di tutte le cose che si manifestano. Come scrive Emanuele Severino:
«Lo scomparire di un essente è l’incominciare ad apparire di un altro essente. Quando la voce del vento scompare, è seguita dall’apparire di un silenzio in cui le cose che rimangono mostrano un altro volto. Il sopraggiungere di questo silenzio è il compimento dell’apparire della voce del vento».
[Testimoniando il destino, Adelphi, 2009, p.85].