Lettera aperta per tutt* coloro che sono stort*
e non capiscono un ca**o
di Marta Orsola Sironi
Caro G.,
ti scrivo da un tavolino del Bar Aurora, da quell’angolo del cortile che dà su Via Padova. Milano è calda e appiccicosa e un gruppo di uomini si è appena levato per rintanarsi al riparo dell’aria condizionata. Mi portano uno spritz, il solito mio, rigorosamente Aperol in bicchiere alto e squadrato. Altri tre uomini parlano arabo, fanno rumore ma non riescono a sovrapporsi al flusso dei miei pensieri. Oggi va così: a quanto pare la fiammella latente si è aizzata d’impeto e le parole mi scappano di mano. Per poterle trattenere tutte devo necessariamente scriverti a computer – cosa che odio – ma le mie penne buone sono rimaste sulla tua scrivania e mi tocca sperare che la batteria regga.
Ho pensato al soggetto nomade e al mio bisogno di mettere un punto a tutte quelle riflessioni informi che mi porto appresso da ormai un decennio, retaggio forse di quella sedicenne senza casa e un poco spersa, con quel suo bisogno struggente di trovarsi un nido che le corrispondesse e un posto nel mondo cui poter appartenere.
A quanto pare non sono poi così diversa da lei, se ancora oggi sono così ossessionata dalle problematiche dell’identità e del suo configurarsi attraverso il tempo e lo spazio.
Ultimamente non faccio che leggere Gaston Bachelard e Rosi Braidotti (sopra tutti ovviamente aleggia quello spirito deleuziano che tanto apprezzi pure tu). Nel suo tentativo di tracciare una fenomenologia dell’immaginazione poetica il filosofo francese passa in rassegna i luoghi dell’identità e dell’io. Prima fra tutti vi è la casa, primo universo dell’individuo, primo spazio abitato, grande culla che tiene l’infanzia tra le braccia e definisce i nostri valori di intimità e di stare bene, riparo archetipico dall’esterno per quel soggetto che in sua assenza si trova gettato e disperso nel mondo. Continua Bachelard – e so che ti piacerebbe – che è nella casa che le nostre immagini trovano alloggio: lo spazio racchiude e comprime il tempo nei suoi mille alveoli e il calendario della nostra vita può stabilirsi solo nel suo complesso di immagini, dunque nella coesione dei due estremi, nella localizzazione geografica dei nostri ricordi.
Non è un caso che Rosi Braidotti, altro vero perno della mia logorrea odierna, veda nel nomadismo una metafora performativa, una cartografia appunto delle interconnessioni e delle transizioni dei vari livelli dell’esperienza.
Ho ordinato un altro spritz qualche riga fa e conto di finirlo a breve. Ieri parlavamo del soggetto davanti a un bicchiere di vino – un vino buono, non come il bianchino che danno qui e che sorbiscono i vecchi del quartiere dopo il primo caffè del mattino. Allo stesso modo discorrevamo noi, con due attitudini forse diverse ma forse anche con la stessa propensione. Tu un filosofo teoretico che nel soggetto ci crede ancora, io un’entità randomica, figlia di un liceo classico fatto male e di una spiccata passione per il citazionismo irriverente. E’ stato in quell’occasione che ti ho citato il soggetto nomade di Braidotti. Secondo la filosofa, in quest’epoca post-moderna della globalizzazione la velocità delle mutazioni in corso ha comportato una serie di profonde trasformazioni del sistema produttivo, che vertiginoasamente stanno modificando anche le strutture sociali e simboliche tradizionali. Assistiamo al declino di queste di fronte all’egemonia di un nuovo modo di organizzare l’accumulazione, a una nuova tendenza storica verso la mobilità transnazionale, a un orizzonte dalle linee sfuggenti. Eppure, nonostante tanta libertà di circolazione delle merci, l’individuo si trova ancora limitato e controllato nelle sue forme e possibilità di mobilità. In conseguenza o in reazione a tutto questo, si pone il nomade, quale soggettività multipla e non unitaria, forma di resistenza critica al sistema attuale. Il nomade è sensibilità emotiva e politica che non ha confini: equivale alla presenza nello stesso soggetto di molti dei tratti di differenziazione che costituiscono la soggettività. E’ una figurazione, un’immagine per descrivere quella presa di coscienza che muove verso il ribaltamento delle convenzioni date, quella passione politica per la trasformazione, per il cambiamento radicale. Come ti dicevo, gli spostamenti nomadici sono per Braidotti una metafora performativa, un’applicazione positiva e radicale di quella filosofia del “come se” che fa della parodia possibilità di prossimità empatica, innesco di una serie di interconnessioni tra soggetti e forme di esperienza, tecnica di ri-collocazione che conduce all’affermazione dell’esistenza di confini fluidi. Il nomadismo è dunque consapevolezza di una pratica degli intervalli dove si possono generare forme alternative dell’agire. Il soggetto nomade è la chiave per aprire nuove possibilità di vita e di pensiero ed è, per la filosofa, indissolubilmente legato alla creatività: tutti noi dobbiamo essere in grado – o metterci in grado – di imparare a pensare alla nostra soggettività in modi radicalmente diversi da quelli convenzionali. Dobbiamo imparare e configurare nuove modalità di stare al mondo, essere creatori e creatrici di nuovi tropi, nuove figure di discorso, nuovi termini di possibilità storica. E se il soggetto è in realtà puro divenire, processo di attraversamento e creazione, esso costituisce una resistenza attiva a qualsiasi illusione di unità e metafisica.
Più avanti Braidotti afferma che linguaggio è il mezzo e il luogo di costituzione della soggettività e al contempo rappresenta il capitale simbolico accumulato dalla nostra cultura. Il soggetto nomade, dunque, non può che essere poliglotta: è in transito tra le lingue, tra i luoghi di scambio simbolico che informano la società. La sua costruzione è un processo di negoziazione tra strati, registri di discorso e schemi di enunciazione. E se la lingua è sempre arbitraria, allora la poliglotta non è che il prototipo del soggetto postmoderno tutelare di parola, ovvero colui o colei che ha il coraggio di attraversare questa realtà e imparare ad essere nomade.
Torno a sottolineare che, come sostiene Braidotti, lo stato nomade non implica necessariamente un viaggio per il mondo. La metafora performativa del nomadismo è piuttosto un mezzo per rendere/si conto del proprio posizionamento in quanto soggetti-in-divenire: è uno strumento cartografico, una pratica di autocoscienza. Il nomadismo, per Braidotti, è inoltre la capacità di costruire la propria dimora ovunque: nel suo perenne mutamento, nel suo essere costantemente in transito e in divenire, il soggetto nomade abita questo fluire irrefrenabile, imparando a piantare le tende in esso, ad aprire, ogni volta, spazi di discorso critico.
Quando ci sono state affidate le vetrine di co_atto devo ammettere di averle rifiutate con forza per una buona nottata. Sono uscita dalla Stazione di Garibaldi e ho ammesso con D. di non avere la forza per prendermene cura. Poi ho incontrato Cosimo, che guarda caso ha avuto una vetrina tutta per sé qualche mese fa: la prima cosa che mi ha detto è stata “immagina quanto ne sarebbe contento Aby Warburg”. Non ho potuto fare altro che tornare sui miei passi ed accettare. Solo nei mesi seguenti ho imparato ad amarle follemente: nel frustrante distacco dell’ennesimo lockdown e in quell’epifania del ritrovarle lì, dure e disinteressate, pronte ad accogliere o a respingere secondo il loro capriccio tutte quelle mie teorie e quei bisogni visivi che ancora e sempre affolleranno la mia testa.
Posso dire con certezza che la mia vita sarebbe stata più facile se non avessi mai sentito parlare di Aby Warburg e probabilmente sarebbe molto più facile anche ora se non dovessi prendermi cura di 18 vetrine, ovvero 80 metri di pareti, ovvero 10 artisti e artiste alla volta, una rivista, un archivio e chi più ne hà ne ha di certo messo – o non saremmo a questo punto. Ma non sarebbe la mia vita. Mnemosyne, ma ancor meglio tutta la teoria della trasmigrazione delle immagini e dei simboli, mi hanno segnato l’esistenza. Solo recentemente ho saputo trovare una definizione a quel caos che mi abitava la testa, deifnizione che è subito evoluta da quella dell’archivio – del deposito, ordinato o magmatico quale sia – a quella del dispositivo processuale e partecipativo – ovvero il display, l’interstizio, la radura dove poter vedere le cose nel loro accadere.
Per capire cosa intendo dire ad oggi per “dispositivo processuale e partecipativo” bisogna tornare a Foucault e alle letture che ne danno prima Gilles Deleuze e Cristina Baldacci poi. Per Foucault un dispositivo è una matassa, un insieme multilineare, composto da linee di natura diversa che tracciano processi in perenne disequilibrio. Sciogliere la matassa significa ogni volta tracciare una cartografia (ecco che torna la mappa), portare alla luce alcuni aspetti in cui ritrovare parte di noi e degli altri da noi. I dispositivi sono “macchine per far vedere e far parlare”, dove convergono e si intersecano processi e produzioni di soggettività. E’ il dispositivo a rendere possibile al proprio interno tali processi di individuazione, in quanto ogni dispositivo è una molteplicità nella quale operano determinati e singolari processi. Noi tutti apparteniamo a dispositivi e ci muoviamo in essi. In loro dobbiamo imparare ogni volta a distinguere ciò che siamo e ciò che stiamo diventando. A questo ci servono le mappe per figurare i nostri viaggi futuri e gli archivi per conservare le tracce del nostro passato.
Foucault si è presentato a noi coatti in occasione della nostra seconda mostra. Stavamo cercando di pensare all’archivio come ragion d’essere per le vetrine, ma non riuscivamo a venire a capo della questione: c’era qualcosa che mancava, che non ci soddisfaceva appieno. Era come un punto cieco grande come un elefante, che stava muto davanti a noi e ci rideva in faccia. Come collettivo, infatti, all’inizio della nostra avventura presso la Stazione di Porta Garibaldi ci siamo dati tanti statements e tante definizioni. Abbiamo scritto nero su bianco cosa dovevamo essere, cosa avremmo dovuto fare. Niente di più inutile, quasi quanto un esercizio di retorica scritto sulla sabbia. Ogni rapporto con quell’ambiente, ogni mostra, hanno frainteso, stracciato e calpestato tutte le nostre idee iniziali. Le vetrine sono ribelli e indipendenti, fanno quello che vogliono quando lo vogliono e noi non possiamo che cercare di carpire i segnali che ci danno, quando sono disponibili a concederceli. Quello dell’archivio come concetto non bastava a spiegare tutte le loro sfide e resistenze, né poteva essere sufficiente a comprendere le dinamiche che di volta in volta si andavano innescando sia con gli artisti, che con le opere ed il pubblico che le fruiva. Abbiamo avuto bisogno di innumerevoli momenti di confronto con amici e confidenti, ma alla fine non abbiamo potuto far altro che ammettere ciò che forse era ovvio fin dall’inizio. Prima di qualsiasi etichetta prefabbricata, di qualsiasi considerazione aprioristica, di qualsiasi valutazione di ciò che sono e potrebbero essere, le vetrine sono semplicemente delle “macchine per far vedere e parlare”: appunto dei dispositivi. Dei dispositivi alquanto capricciosi. Quello che chiedono è un lavoro di traduzione (a dire il vero non lo chiedono nemmeno, loro restano sopra ogni cosa indifferenti).
E’ stata Julia Kristeva a sostenere che la traduzione sia uno stato mentale comune a tutti gli individui pensanti. Se il linguaggio è un luogo di contrattazione e mediazione, come dicevamo prima, se il dispositivo è essenzialmente una matassa di processi di individuazione in continuo divenire, allora la traduzione non può che essere il principale esercizio da applicare nella negoziazione della soggettività. Un esercizio costante è scendere ogni volta al piano mezzanino di Garibaldi e trovare un terreno comune dove poter intavolare un discorso con quelle 18 entità e tutte le variabili che da loro si dipanano. L’unico modo per avere a che fare con le vetrine è, infatti, quello di provare ad invitarle a un tavolo e parlare con loro. Solo spendendo del tempo insieme a loro, provando ad ascoltarle e capire – o carpire – ciò che hanno da dire, è possibile instaurare un rapporto di dialogo il più possibile paritario.
Per questo motivo in occasione della nostra terza mostra abbiamo invitato dieci artisti a trascorrere un periodo di residenza presso il Passante Ferroviario di Milano Porta Garibaldi. Avevamo bisogno che qualcun altro provasse a fare quello che regolarmente facciamo noi: trascorrere così tanto tempo là sotto da riuscire a comprendere – o quantomeno presentire – l’entità di quel luogo-non luogo e provare a tradurla all’esterno.
Sono le 20.00, ho rimandato tutti gli impegni della serata, ho perso il conto degli spritz, la batteria è al minimo e io continuo a scriverti. Ho il terrore di fermarmi e perdere il filo di questo discorso sconclusionato. Ancora non ho deciso se ti parlerò di questa lettera. Di certo è tutto fuorché un testo accademico: vedremo cosa ne penseranno Ludovico ed Ermanno. Ho riflettuto, infatti, di dare alle stampe – se così si può dire – questo sproloquio sia per red_atto che per BORDI. Non tanto per mancanza di inventiva o di voglia, ma perché sto cercando di dire qui tutto quello che in questi mesi ha condizionato ogni aspetto della mia vita e della mia ricerca. Ad Ermanno, poi, un testo lo devo con tutto il cuore. E’ stato lui, ormai un anno fa, a rincuorarmi in quel momento di sconforto che tanto ti ho descritto e a permettermi di capire che se il tempo non aspetta tempo, noi non dobbiamo fare altro che ascoltare noi stessi, anche a costo di perdere tempo, per imparare a rispettare i nostri ritmi e prenderci cura di noi. So che ti piacerebbe questa sua fiducia rasserenata nel fluire degli eventi e nell’ascolto paziente del presente che siamo. Di certo se non lo avessi incontrato quella sera di settembre al tavolino di un bar di Milano Sud non avrei mai avuto l’energia e la serenità per intraprendere quest’avventura.
Ieri notte hai colto un problema fondamentale: le vetrine non sono uno spazio espositivo. Non hanno nulla dell’aurea sacrale del white cube o del museo, ma non hanno neppure il carattere del project space: non vivono di un’organica possibilità di ricerca o interpretazione, ma chiedono ogni volta una puntiforme volontà di reinvenzione. Dopo qualche mese avevo finito gli artisti nella mia manica e ho dovuto chiamare altri curatori e curatrici per chiedere loro aiuto. Siamo tre contro diciotto: la sproporzione è spesso letale.
Eppure è proprio contro l’idea del white cube, della sacralità dell’arte che noi coatti stiamo cercando di andare. Che senso avrebbe arroccarci in una torre dorata di purezza estetica e concettuale stando all’interno di un passante ferroviario, nel centro di Milano, in un corridoio brutto, continuamente attraversato da migliaia di passanti? E’ estremamente divertente e al contempo fastidioso: le vetrine, un non-luogo per eccellenza, non vogliono saperne di Marc Augè e continuano imperterrite ad essere un luogo estremamente connotato e connotante. Inoltre, non è possibile per noi essere sempre presenti per fare da mediatori tra il pubblico e le installazioni che vede dietro i vetri. Gli artisti, che di solito si collocano in una posizione culturalmente sopraelevata rispetto al fruitore medio, in questo caso sono condannati a una nudità indifesa. Come sono solita dire: è come se là fuori ci fosse una tua foto nudo ma tu non potessi essere lì per dire “attenzione è un nudo artistico!” – c’è, è sola e viene vista, tutto il resto non conta.
Quindi che fare? L’unica soluzione è continuare a provare.
Ieri mi hai detto di aver salvato solo due vetrine e io ne ero contenta. Banalmente – e potrebbe essere tutto dire ma tu sai che non lo è – la resa formale al momento non mi interessa. Mi è stata data in mano una materia strana, ribelle, magmatica e l’unica mia possibilità è quella di continuare a provare. Lo scopo non è domarla – Spirit Cavallo Selvaggio e mille altri film di ispirazione disneyana ci insegnano quanto sia proprio lo spirito libero il maggior fautore di un prorompente slancio.
Rosi Braidotti ad un certo punto dice di voler “Piantare le tende nelle mie teorie”. Ho riflettuto a lungo su questa frase. Cosa vuol dire piantare le tende nelle proprie teorie? Questo ambiente strano, difficile e faticoso che è co_atto è forse la radura migliore dove il soggetto nomade che Braidotti auspica per la contemporaneità – ed io con lei – possa trovare albergo per la notte. Come co_atto quello che noi abbiamo fatto è stato invitare sempre altre persone ad abitare le nostre tende e a piantarne di nuove dove abitare noi stessi. Proprio perché impossibile vivere dentro e con le vetrine: solo Ben Vautier nel 1962 trascorse 15 giorni in una window, ma scommetterei che fosse molto più profonda dei nostri 50 cm. Dopo tutti gli statements fraintesi e tutti i nostri tentativi, oggi noi tre siamo consapevoli di una cosa: quello delle vetrine è uno spazio puntiforme, difficile e frammentato, è un luogo-non-luogo, uno spazio intercapedine per un senso che va oltre la frenesia della quotidianità. E’ una crepa, 18 crepe attraverso le quali guardare oltre il necessario per rendersi conto che è nel contingente, nell’assolutamente non-necessario, nell’arte degli interventi minimi e dell’interrogazione del senso e del sentimento, che si spalanca un panorama di possibilità dove il soggetto può trovare dimora. Ieri, davanti a quel bicchiere di vino, ti ho detto che il mio obiettivo, e forse lo scopo stesso delle vetrine, è quello di creare spazi di discorso critico. Come altro poter portare avanti una riflessione del genere se non in e attraverso una entità spaziale paratattica? Se dieci anni fa due giovani pittori dell’Accademia di Brera non avessero preso una ben più giovane me e non l’avessero trascinata a vivere con sé, per mostrarle che il mondo va oltre le scadenze banali del quotidiano e si situa in quel nomadismo che è l’estrema mobilità dell’esistenza, oggi sarei un essere ben più inconsapevole e forse sereno.
Ma il caso ha voluto che E. ed L. mi prendessero con loro, come la macchinina vintage di un ben noto film, e mi portassero in una vita che non può accontentarsi di 18 spazi devoluti alla pubblicità. 18 volte meglio spaccarsi la testa su come aprire in quelle vetrine spazi di discorso critico, perché, come insegna il caro Bachelard – e i carissimi Deleuze, Guattari, Augè e chi per loro, ma soprattutto il nostro carissimo Alessandro Montefameglio per il quale, inconsapevolmente lui, noi ci siamo conosciuti – è nello spazio ristretto, nello spazio della culla identitaria e della rêverie che si aprono mondi di possibilità per il soggetto che impara ad abitarsi. Quello delle vetrine è – ora lo inizio a capire – un dispositivo, processuale, partecipativo o capriccioso che sia. Spetta a noi, i soggetti-in-divenire, il compito di imparare, ogni volta ed ogni giorno, a farne casa nostra e del nostro senso del mondo.
Fuori, nel mondo, siamo entità disperse e sole.
Ti scrivo questa lettera senza un vero scopo o una vera intenzione, non so se la leggerai e se mai avrò modo di pubblicarla – di certo sono oltre il limite di battute che Ludovico, Ermanno o chi per loro potrebbero accettare – di certo sono oltre la soglia alcolemica consentita. Mi ero portata i millemila libri che hanno popolato la mia testa negli ultimi mesi: conviviamo molto molto male su questo tavolino ristretto e ormai poco illuminato. Il bar Aurora sta chiudendo, si sente Striscia La Notizia in sottofondo e la batteria sta tirando gli ultimi sospiri. Spero tu lo abbia capito, il mio compito, il nostro compito come coatti, è creare spazi di discorso critico dove i soggetti in riconfigurazione e trasformazione possano andare ad abitare per qualche tempo. In fin dei conti viviamo tutti in quel continuo stato di transizione, siamo tutti passanti dell’anonimo corridoio di una qualsiasi stazione, soggetti precari in un mondo troppo veloce e bulimico che spesso si perde i pezzi per strada. A tutti noi è richiesto oggi più che mai di piantare le tende nelle nostre teorie e, possibilmente, in quelle degli altri.
Chi abiterà chi, è ancora tutto da definirsi. Ma forse non conta.
Come non conterà se tu mai leggerai o meno questa lettera.
Sono quasi le nove.
Non ho ancora fatto alcuna chiarezza e di certo ho solo bevuto troppo.
Mi hai scritto tu stesso una lettera in cui parlavi di un confine nomade e fugace contro l’orizzonte. O forse è stato un sogno tutto mio. Quel che importa davvero è quella frontiera non troppo nascosta al piano mezzanino di una certa stazione di un certo passante ferroviario. Se vorrai mettere il mondo in discussione potremo provare ad incontrarci là. Io nel frattempo vado avanti per tentativi.Buona notte G, dormi bene, bevi tanto e ascolta la voce dei treni:
fischieranno forse e ti porteranno lontano
Infinite volte buona notte
M.O.