Quando Aby Warburg Muore
L’Archivio tra Studium e Memoria Sociale
di Luca Maffeo
Quando Aby Warburg morì, fu chiaro sin da subito che il suo retaggio non poteva che essere il lavoro. Lo “studio”, in altre parole, così come lo intendevano gli antichi: una pratica, un’azione del desiderio. Poiché dove la mente non arriva, ci si deve addentrare, correndo il rischio di perdersi. Lo Studium, tuttavia, non può cercare qualcosa che non c’è. Warburg lo aveva capito. Ogni passo della sua attività, le conseguenti cadute, le ripetizioni, ne hanno decretato la traiettoria. Così è il Bilderatlas Mnemosyne, l’opera warburghiana per eccellenza, il coronamento di una ricerca la cui idea germinale risaliva al 1905, e che non giunse mai a pieno compimento. La curiosità, infatti, che oggi l’Atlante, a momenti alterni, ancora suscita è forse dettata in forma maggiore dall’assenza di una vera e propria sistematicità, piuttosto che dal rapporto che intercorre tra come un tale studio avrebbe dovuto essere e come si presenta, a novant’anni dalla morte dello studioso di Amburgo, sopraggiunta il 26 ottobre 1929. Warburg, alla fine della sua carriera, «aveva capito che doveva rinunciare a fissare le immagini». Quest’ultime si susseguono come stelle, punti luminosi di vita propria che segnano strade diverse secondo multiformi combinazioni, giammai predefinite. I 63 pannelli sui quali sono affisse, infatti, non avevano il compito di erigersi come “strutture”, “schemi” pronti all’uso da lasciare ai posteri e, per mezzo dei quali, gli avvenenti avrebbero potuto circoscrivere le linee di una storia tracciata, una volta e per tutte. «Non si trattava di ricapitolare un’opera, insomma di concluderla, bensì di dispiegarla in tutti i sensi per scoprirne le possibilità ancora inavvertite».[1] Era la follia del principio; la “traccia” di una teoria imperfetta – e poiché imperfetta incompiuta – di un insieme organico di immagini, che ancora poteva essere indagato. Un’opera che «i giovani studiosi», così come «gli storici dell’arte e gli scienziati della cultura hanno il dovere di rendere fruttifera», scriveva Giorgio Pasquali nel 1930, «lasciando che essa operi su di loro, cioè trasformandola».[2]
Ciò che conta, oggi più che mai, in un’epoca straziata dall’eccesso di informazione, è l’assillo che da sempre ha caratterizzato il modus operandi di Warburg, il suo metodo, talvolta incompreso anche dai suoi più stretti collaboratori, assistenti o allievi. È pertanto vero che la certezza di una via unica, tanto metodologica, quanto storico-scientifica, dello studio delle immagini, avalla la necessità di una ricerca filologica che debba prendere in esame l’opera d’arte senza misconoscere l’eventualità di un’interpretazione. Una rielaborazione esplicativa ed espressiva del sapere che è in grado di farsi carico della possibilità, oltre che della capacità, di “rendere manifesto”. Di fatto, l’Atlante è sì un dispositivo, ma di certo vulnerabile. Rievoca la struttura dell’archivio, senza tuttavia garantirne la staticità. Alla raccolta di documenti o, in questo caso, di immagini, simboli e oggetti, considerati “autorevoli” si annoda la necessità di un approccio argomentativo che, per dirla con George Didi-Hubermann, va considerato «nella sua capacità di apertura euristica», in quanto direttrice di scoperta, «e non nella riduzione assiomatica dei propri programmi».[3]
Ciò che nell’immediato post-mortem del maestro non fu del tutto chiaro, era dunque il metodo. Ogni tentativo di regolarizzare o definire quanto accaduto dall’inizio alla fine, alpha e omega, era destinato a fallire. Lo stesso Fritz Saxl – allora promettente allievo ventitreenne – nel suo Discorso di commemorazione pronunciato il 5 dicembre 1929, si trovò a dover confessare, in tutta sincerità, quello che non aveva compreso: il Bilderatlas, la disposizione delle immagini, i rapporti tra le immagini, il significato degli accostamenti. «Io non vedevo il nesso fra questi elementi», diceva Saxl, «ma supponevo solamente che, nell’animo di Warburg, questi elementi si potessero congiungere in una forma unitaria […] Solamente colui che era colmo di questi problemi poteva ricomporre questi dati».[4]
La conoscenza, quindi, regola la de-struttura quando convoglia nell’esperienza del soggetto che la intraprende l’accettazione di un’insorgenza talvolta inaspettata, e implica l’azione attiva delle controparti, del “guardare” e del “guardato”: la stasi inibita di un trascendimento do ut des che si arrischia nel difficile compito di far quadrare un cerchio che non quadra mai. Ogni interpretazione è possibile, poiché, in verità, la chiave di lettura dell’Atlante era Warburg stesso. «Solo Warburg in persona», ha scritto Andrea Pinotti, «poteva sperare di orientarsi in quel caos».[5] Lo studioso alle prese con dati e immagini, oggetti e simboli, mediante i quali la cultura stessa, la cultura dell’occidente, considerata nella sua interezza, non poteva che essere concepita come un continuo «processo di Nachleben», affermava Giorgio Agamben, di sopravvivenza, «cioè di trasmissione, ricezione e polarizzazione».[6]
A tal proposito, quando tra il 2016 e il 2017, il fotografo Armin Linke decide di aprire il suo archivio, composto da migliaia di fotografie, a scienziati, esperti e teorici di diverse discipline, scaturisce una mostra inconsueta e dal titolo quanto mai emblematico. L’apparenza di ciò che non si vede,[7] la sua esposizione, era il frutto di approcci differenti ad un lavoro precedentemente svolto (la fotografia e la sua archiviazione) e, per certo, nato da un’esperienza che gli studiosi chiamati in causa non avevano vissuto. Linke, non era interessato «all’archivio in sé», ma a «come il processo di archiviazione metta alla prova le immagini», per capire così «se la singola fotografia possa sopravvivere alla motivazione che spinge a scattarla in un determinato istante». Il fotografo aveva dunque ideato una modalità espositiva che se da un lato doveva riconsiderare l’archivio in modo tale da creare una struttura non volta a «imbalsamare il contenuto»; dall’altro tendeva alla “riapertura” del medesimo archivio mediante l’accostamento di due immagini, «come si fa nel montaggio di un film». È poi lo spettatore «a creare una terza immagine a partire da quell’accostamento».[8]
Quando il lavoro insorge, le uniche domande valide sono le domande che non trovano risposta, che ancora non riescono a dare un senso unitario al “gioco” della storia. Quel che si deve considerare, in ultima analisi, è l’immagine presa nella sua “singolarità”, colta, diceva Markus Lüpertz, nel «suo contenuto malinteso».[9] L’immagine nel tempo cairologico, il tempo dell’occasione, dove «lo spazio fra uomo e oggetto» si «distrugge».[10] L’immagine è carica di tempo, è soggetta al tempo, e, di conseguenza, è carica di memoria; è un «organo della memoria sociale e “engramma” delle tensioni spirituali di una cultura».[11]
In questa prospettiva è possibile comprendere, in definitiva, come l’immagine warburghiana dovesse sottrarsi dall’idea di un “ordine archivistico”. L’archivio di Warburg (l’Atlante così come la Biblioteca) “esplode”, poiché continuamente riattivato, mosso e incompreso; “polarizzato” dal desiderio di un’esperienza presente.
Note
[1] G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 421-423.
[2] G. Pasquali, Ricordo di Aby Warburg, “Pegaso” II, 4, 1930, pp. 484-495; ristampa in “La Rivista di Engramma”, n. 113-115, edizioniengramma, 2020, pp.130-142.
[3] G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, pp. 227.
[4] F. Saxl, Discorso di commemorazione di Aby Warburg (5 dicembre 1929),trad. di M. Vinco, “aut-aut”, 321-322, 2004, pp. 166-167.
[5] A. Pinotti, Pazienza del dissimile e sguardo pontefice, “aut-aut”, 348, 2010, p. 67.
[6] G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, in La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza, 2005, p. 133.
[7] Armin Linke – L’apparenza di ciò che non si vede, a cura di I. Bonacossa, P. Ziegler, Padiglione d’Arte Contemporanea (Milano, 16 ottobre 2016 – 06 gennaio 2017), Silvana Editoriale, Milano, 2016.
[8] Armin Linke in dialogo con Ilaria Bonacossa, Philipp Ziegler e Joerg Bader, ibi. p. 400.
[9] K. Heinrich, Die Neuen Wilden in Berlin, Klett-Cotta, Stuttgart, 1984, p. 22.
[10] A. Warburg, Divinazione antica pagana in testi e immagini dell’età di Lutero, SE, Milano, 2016, p.17.
[11] G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome…cit., pag. 133; Ernst Gombrich ricordava che secondo Richard Semon – di cui Warburg, fin dal 1908, possedeva il libro Mneme – «ogni evento che influenza la materia vivente lascia una traccia» che lo studioso, seguace di Hering, «chiama “engramma”». Cfr. E. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 210.
Riferimenti
Luca Maffeo è Laureato in Storia dell’Arte e Archeologia, insegna e collabora regolarmente con il magazine online “FormeUniche”. Dal 2017 è co-founder del Rehearsal Project, spazio indipendente di Milano.