Archivio come dispositivo tra narrazione, processualità e co_azione

di co_atto

Una premessa doverosa a questo secondo numero di red_atto dedicato ai temi della memoria, dell’oblio e dell’identità, nonché alla vasta e plurivoca riflessione in merito all’archivio, è proprio spiegare perché e come co_atto intenda occuparsi di archivi. Fin dall’inizio, quando ci siamo posti la sfida di aprire un project space in vetrina (in oltre ottanta metri di vetrine per dirla tutta!) abbiamo deciso di lavorare su questa tematica. L’archivio da subito è stato inteso da noi sia come deposito fruibile di materiali che possano tener traccia dei nostri molteplici interessi e indagini, sia, soprattutto, come dispositivo aperto a una continua sperimentazione. Alla base di co_atto, infatti, vi è un ragionamento in merito alla riappropriazione dei non luoghi e del loro ri-uso come spazi di possibilità per la creazione di senso, sia esso artistico o più ampiamente culturale. Le vetrine hanno stimolato una riflessione intorno alla processualità del fare creativo e dei processi semiotici e culturali prodotti costantemente dai singoli e dalla collettività, in quanto ci sono sembrate il display più adatto per metterli in mostra.

Quello delle vetrine è, infatti, uno spazio puntiforme. Duecento metri di parete divisi in diciotto porzioni equipollenti, unite tra loro per addizione. E’ uno spazio paratattico, che vive nella pausa tra una “e” e quella successiva. E’ un tunnel sotto molti metri di terra, dove coercizione e impressione visiva si impongono a chiunque si trovi a passare di lì. E’ un corridoio in fuga prospettica, che vive di una consequenzialità vertiginosa.

Di “vertigine” parla Umberto Eco durante le lezioni parigine raccolte sotto il titolo di “Vertigine della lista” (Bompiani, 2009). Come già Jaques Deridda nel 1995, lo scrittore italiano riconosce nella lista, nella nominazione e catalogazione dei dati del reale, la “prima regola per ordinare il mondo, la struttura elementare della conoscenza, l’anima della cultura” (BALDACCI 2016, p.23): un sistema aperto, sommatoria dei tentativi umani di abitare la realtà .

All’apparire dell’individuo, il reale si configura come una totalità panica e assoluta. Si viene al mondo gettati nel caos senza nome con il lancinante dubbio di una disperante contingenza.  Per poter sopravvivere si avverte il bisogno fondamentale di orientarsi, di nominare le cose, isolarle e organizzarle per poterle conoscere e posizionarsi in relazione a esse. Non è un caso che gli atlanti si compongano tanto di immagini quanto di parole: dal verbo e dalla misurazione, dalla necessità di fare ordine e nell’ordine trovarsi un posto, l’essere umano inizia il suo percorso di esistenza e con lui, a braccetto, procede la cultura, stratificandosi e proliferando.

A inizio del Novecento Aby Warburg ha portato all’attenzione la trasmigrazione di immagini e simboli all’interno dei processi culturali. Mnemosyne, il suo atlante visivo, è concepito come un dispositivo di conoscenza che consente uno sguardo comprensivo sul reale e i nessi che lo informano. Anni dopo Aleida Assmann in “Ricordare” traccia una distinzione tra memoria-funzionale e memoria- archivio o potenziale. Alla prima afferiscono i ricordi dotati di un preciso significato, capaci per questo di determinare l’identità del singolo individuo e della collettività che vi si riconoscono. La seconda è invece descritta come un deposito, che in ogni momento può sottrarsi alla disponibilità. Ne fanno parte elementi indefiniti, resti ormai astratti dal vissuto che giacciono in un accumulo amorfo e non possono assolvere allo storytelling del senso. Affinchè la memoria possa assumere una forza d’orientamento (funzionale), ci si deve riappropriare di questi frammenti dispersi, classificarli per renderli accessibili e farli ri-emergere come ricordi individualizzati. Non a caso, Johann Gottfried Herder lega la facoltà del ricordare all’interruzione di flussi, all’arresto e alla stabilizzazione delle immagini e dei segni. Sempre Assmann sostiene, infatti, che dalla necessità umana di fare ordine nel caos nasca l’archivio quale modo per “combattere il nulla” parafrasando “La Bava del Diavolo” di Julio Cortázar (CORTÁZAR 1963, p.91), modalità per abitare il reale, tornando ad Eco, dando un nome alle cose, isolandole e catalogandole per conoscerle ed esistere rispetto e insieme ad esse. Prima ancora di essere luogo di memoria l’archivio è, dunque, azione di esistenza, configurazione delle modalità umane di stabilizzazione dell’identità, strumento per definire un rapporto io-mondo.

Chaos e orientamento, ricordo e germinazione del senso, memoria come ars (funzionale) e memoria come vis (potenziale): quali forme può e soprattutto deve assumere l’archivio a fronte di tutti questi assunti? Scrive Wolfgang Ernst che nelle società mediale il sogno della catalogazione totale è anacronistico e ci si deve invece abituare a pensare in modo entropico, affidandosi a quel marasma magmatico della memoria potenziale e alla sua continua necessità di riattivazione. Bisogna dunque concepire l’archivio non come un sistema chiuso e definito, ma come un “an-archivio”, un display, un dispositivo processuale e partecipativo, uno “strumento strategico di resistenza esistenziale e sociopolitica” (BALDACCI 2016, p.10). Dalla fine degli anni Sessanta, con la caduta del Muro e il conseguente disgregarsi delle ultime ideologie totalizzanti (o totalitarie), si è via via accresciuta l’ossessione per l’archiviazione dei dati come modo per salvaguardare il ricordo personale e l’identità collettiva, di quell’individuo moderno vinto dallo scetticismo e dallo smarrimento. Soprattutto nell’arte quella dell’archivio è diventata una pratica comune: molti sono gli artisti che lo hanno incluso nelle proprie ricerche, lo hanno messo in scena o hanno lavorato sulle sue modalità di riattivazione, sulle sue possibilità narrative o ancora sulle sue implicazioni sociali e politiche. Ernst van Alephen in “Staging the Archive” sottolinea il fatto che questi usi sono sempre stati “trasgressivi”, in quanto hanno considerato l’archivio come un agente attivo di memoria e identità. Per l’appunto: un dispositivo.

Per comprendere appieno il significato che in questo caso assume il termine “dispositivo” ci si deve rifare alla conferenza tenuta da Gilles Deleuze nel corso di un convegno su Foucault, svoltosi a Parigi nel 1988. Il dispositivo, dice, è “una matassa” (DELEUZE 2019, p. 11), nella quale operano processi in divenire secondo un continuo stato di disequilibrio e dialettica. Il dispositivo è quindi una “macchina per far vedere e far parlare”, alla quale l’individuo appartiene e in essa agisce, definendo ogni volta chi è e chi sta diventando. Dispositivo è dunque un agglomerato di processi in essere, che permette a ciascuno di riconoscere i tratti di una propria individualità e di esperirla nel suo divenire.

Per pensare all’archivio oggi, dunque, bisogna pensare in modo entropico. Lo si deve considerare un dispositivo alla maniera di Foucault e un’eterotopia, allo stesso modo del museo e della biblioteca: spazi altri, che mettono in relazione il singolo elemento con il tutto cui appartiene, isolandolo e dandogli dignità, certo, ma contestualizzandolo nel più vasto flusso della cultura e dell’esistenza umana. Allo stesso modo funzionano il Museo Immaginario di André Malraux e il Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk e molti altri esempi di dispositivi ed eterotopie legati alla memoria e al rapporto sentimentale che abbiamo con essa.

Così come il BilderAtlas di Warburg era figlio delle tavolozze nere che lo studioso si portava appresso in occasione delle sue conferenze come lavagne esplicative, anche quello delle vetrine è un display puntiforme che procede per somme e divisioni: uno spazio frazionato e aggregato, una tabula rasa su cui riscrivere all’infinito. E’ un non luogo e un luogo altro, un dispositivo entropico ed eterotopico, dove ordine e disordine, attenzione e distrazione, libertà e coercizione convivono spalla a spalla.

Ancora prima della nascita di co_atto avevamo scritto “la nostra identità procede per stratificazioni di frammenti esperienziali. Siamo il risultato di una plurivocità di narrazioni che giacciono le une sulle altre. Per questo motivo abbiamo il compito di prenderci cura di esse. Di abitarlre come loro abitano noi. Farle ri-vivere per poter continuare a vivere noi stessi.”. Ecco il perché della nostra fascinazione per l’archivio e la nostra volontà di lavorare su di esso: co_atto già al tempo aveva deciso di farsi pagina-passante di tutte le storie che riteneva di dover raccontare, per permettere alla collettività di esperire e co-abitare il processo germinativo e co-partecipativo, co-attivo, proprio perché ontologicamente umano, della costruzione del senso.

Siamo consapevoli, oggi più che mai, che il punto focale dell’aprire un proprio spazio espositivo non stia nella libertà incondizionata di fare tutto ciò che si vuole ma nella responsabilità di scegliere quali storie si ritenga di dover raccontare. Quello delle vetrine è un display in via di sperimentazione e tra tutte le indagini, quella sull’archivio ci è sembrata una strada da percorrere per poterci narrare insieme.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Aleida Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale (1999), trad. it. di S. Paparelli, il Mulino, Bologna 2002;

Julio Corázar, “La bava del diavolo”, in Le armi segrete, trad. it. di C. Vian, Rizzoli, Milano 1963;

Wolfgang Ernst, “Cultural Archives versus Technomatematical Storage”, in Eivind Røssak (a c. di), The Archive in Motion. New Conceptions of the Archive in Contemporary Thought and New Media Practices, Novus Press, Oslo 2010;

Jacques Deridda, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana (1995), trad. it. di G.  Scibilia, Filema, Napoli 2005;

Umberto Eco, Vertigine della lista, Bompiani, Milano 2009;

Ernst Van Alphen, Staging the Archive: Art and Photography in the Age of New Media, Reaktion Books, Londra 2014;

Gilles Deleuze, Che cos’è un dispositivo? (1989), trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2019;

Cristiana Baldacci, Archivi impossibili, un’ossessione dell’arte contemporanea, Johan & Levi, Cremona 2016;