Una vetrina tutta per sé –Raccontarsi per esistere

di Federico Colombo

È il 1929 quando Virginia Woolf dà per la prima volta alle stampe il suo testo di non-fiction più celebre, Una stanza tutta per sé. Tradotto in tutto il mondo e costantemente ripreso dai dibattiti femministi di ogni tempo e ogni luogo, il saggio di Woolf è una disamina sulla condizione delle donne come narratrici e soggetti narrati della letteratura. La scrittrice inglese scrive un testo che è al tempo stesso un saggio letterario e uno scritto femminista dalle inesauribili potenzialità, denuncia la disparità di genere nell’accesso alle professioni artistiche e intellettuali e rivendica il diritto ad avere denaro e, appunto, una stanza tutta per sé. L’indipendenza di una donna – dice Woolf – e la sua possibilità di esprimersi artisticamente sono imprescindibilmente legate all’aspetto economico. Oltre ai soldi, però, alle artiste serve una stanza, uno spazio privato in cui agire il proprio talento, la propria personalità, il proprio intelletto. Nel corso degli anni, la stanza di Woolf si è caricata di un’enorme valenza semantica e di un certo valore simbolico. L’alcova della scrittrice, quel luogo sacro e intimo della creazione è divenuto metafora degli spazi pubblici – fisici, ma anche ideologici – dalle quali le donne sono sempre state tenute lontane. Abitare la stanza, chiudersi a chiave al suo interno e uccidere l’angelo del focolare significa, quasi paradossalmente, cominciare ad avere una certa rilevanza sociale. La conquista della stanza è la conquista di tutte le stanze, di tutti gli spazi prima preclusi, delle narrazioni negate e delle voci rubate.Qualche anno più tardi, più precisamente il 20 gennaio 1931, Woolf affida al suo diario l’intenzione di voler scrivere un nuovo testo dedicato alle donne, una continuazione ideale della Stanza. Il giorno dopo, davanti alla foltissima platea di donne della National Society for Women’s Service, la scrittrice tiene un discorso che si pone in chiara linea di continuità con quanto espresso in Una stanza tutta per sé e dice: «Vi siete conquistate una stanza tutta per voi nella casa che è stata finora degli uomini. […] La stanza ora è vostra ma è ancora spoglia. […] Come la arrederete? Come la decorerete? Queste, io credo, sono questioni di grande importanza e interesse. Per la prima volta siete in grado di interrogarvi, per la prima volta siete in grado di decidere da sole quale dovrebbe essere la risposta». È in questi giorni che Woolf si mette così a scrivere la famosa seconda parte della Stanza, un ambiziosissimo testo che vuole coniugare la leggerezza narrativa alla solidità granitica della saggistica, e che poi sfocerà in due opere letterarie completamente diverse: da un lato, Gli anni, un’epopea famigliare che denuncia il patriarcato e dall’altro Le Tre Ghinee, efficace testo di non-fiction che indaga le origini del rapporto inscindibile tra patriarcato, fascismo e violenza. A distanza di circa dieci anni dalla pubblicazione, Una stanza tutta per sé ha finalmente il suo proseguimento a dimostrazione del fatto che il discorso sul femminile e sui femminismi ha una coda lunghissima, infinita, e che la necessità di rivendicare quello spazio, di mettere nero su bianco una prospettiva alternativa non si esaurisce mai.La lezione di Woolf, la sua esortazione a uccidere il modello femminile sbagliato e riappropriarsi degli spazi ha ancora oggi un grande valore. In un momento storico come quello che stiamo vivendo – con una pandemia che toglie il fiato ed esacerba le disparità – i dibattiti sulle minoranze e sulle fasce sociali costrette nell’ombra o in posizioni di pseudo-sudditanza si fanno sempre più urgenti. Si parla (e per fortuna) sempre più spesso di identità, corpi e sessualità non conformi, di profili che scivolano tra le maglie del genere, che rifiutano le categorizzazioni di sorta, che non rientrano nei canoni del socialmente accettato. Discorsi di questo tipo si intrecciano, riecheggiano l’uno nell’altro, dando vita a stimoli fertilissimi, a prospettive intersezionali che sono fondamentali per guardare al futuro in chiave critica e propositiva. La reazione, però, è ferocissima: più se ne parla, più si cercano spazi, se ne costruiscono di nuovi, si generano alternative, più i nostalgici della tradizione tornano a farsi sentire. Intimoriti di perdere i propri privilegi, rispondono con estrema potenza ai tumulti del rinnovamento e lottano per mantenere inviolato il potere costituito, il conforme, il socialmente accettato. Per tutti questi motivi, sono le identità reiette a dover occupare tutte le stanze che possono. A dover seguire l’esempio di Virginia Woolf e trovare le chiavi di uno sgabuzzino in cui rintanarsi per imparare a raccontarsi. Solo così quel racconto diventerà un atto politico, una rivendicazione di appartenenza e di esistenza. Quello sgabuzzino, quella stanza, quel metro quadro di spazio diventeranno uno spazio pubblico, una fortezza inespugnabile di possibilità di rigenerazione. Raccontarsi e non lasciarsi raccontare, scriversi, generarsi tra le pagine, partorirsi, sfigurarsie rielaborarsi sono esperimenti di autodeterminazione. Scriversi, chiudersi nella stanza e mettersi invetrina. Mettersi in vetrina per raccontarsi e dunque per resistere. Tutti insieme, tutte insieme, esistere.