Stanze, tappeti, finestre.Breve riscoperta dello spazio ridotto
di Alessandro Montefameglio
«disegno un quadrangolo di angoli retti, grande quanto a me piace
il quale mi serve per un’aperta finestra
da la quale si habbia a veder la historia»
L. B. ALBERTI, De pictura, I, 19
Non è così scorretto affermare che tra le molte tendenze della contemporaneità c’è quella di rifuggire gli spazi ridotti. E più che ogni altro momento della storia recente – è ormai persino scontato ripeterlo – l’anno pandemico ha portato alla luce questa tendenza. La chiusura o, ancora di più, la clausura, soprattutto quando avviene all’interno di spazi ristretti – le stanze, le prigioni, le camere d’ospedale –, è occasione di malinconia, di ripetizioni percepite come mortificanti, se non addirittura di malattia. L’individuo si è scoperto meno che mai disposto alla chiusura coatta e ad accettare l’idea (anche quando questa viene declinata politicamente, tramite lo sbarramento e il confinamento) che i limes diventino barriere stringenti, soffocanti, muri e confini inviolabili.
Il pensiero, tuttavia, immune dall’isolamento fisico del corpo, è stato spesso sedotto dagli spazi ridotti. Gaston Bachelard trovava nelle stanze di una casa – persino negli angoli di queste stanze, negli interni delle cassapanche e dei cofanetti – occasioni per riflessioni fenomenologiche sulla natura del pensiero poetico. Più che mai in questi mesi, quando le nostre relazioni con gli spazi ridotti sembrano porci definitivamente, nei confronti di essi, di fronte a una dialettica dall’esito infelice, si dovrebbe fare tesoro del potente farmaco della filosofia. Il nostro è un breve viaggio all’interno di tre spazi ridotti (la stanza di Xavier de Maistre, il tappeto orientale, la finestra di Hitchcock) per coglierne la portata, per rivalutarne la natura, per comprenderne gli inviti al pensiero.
La stanza chiusa
Durante la vigilia di Carnevale del 1790, a Torino, un militare, che altri non era che il filosofo Xavier de Maistre, sfidava a duello un ufficiale, vinceva e veniva rinchiuso nella Cittadella, dove sarebbe rimasto per quarantadue giorni di clausura. Durante questi quarantadue giorni compone un libretto particolarissimo che intitola Voyage autour de ma chambre, il quale conta, appunto, di quarantadue capitoli, uno per ogni singolo giorno di allontanamento coatto dal mondo.
Xavier, che definisce il suo Voyage come un libro «pieno di scoperte, sfolgorante come un’insperata cometa nel firmamento» (DE MAISTRE 2019, p. 15), compone una sorta di marcopoliano livre des merveilles in cui, al posto degli esotici incanti della corte del Kublai Khan, vi sono le pareti della sua stanza, i mobili, le suppellettili, i pochi inquilini (una dolcissima cagnetta e un maggiordomo). Queste scoperte Xavier le compie come un viaggiatore instancabile, dall’acuta capacità d’osservazione, dal pensiero attento e tagliente, ingolosito dalla scoperta e persino dal senso del pericolo, rapito da una certa curiosità verso la riflessione teoretica e l’esotismo, immaginativo e, al contempo, razionale come un filosofo, capace di fantasia e di cartesiane meditazioni. E tutti i luoghi che Xavier osserva nel suo lungo viaggio riguardano, senza eccezione alcuna, il medesimo, ridottissimo spazio. Con esso Xavier instaura un’affinità di senso e di spirito esclusiva («quando lo spirito viaggia in questo modo nello spazio, è sempre legato ai sensi da non so quale segreto legame», p. 33); il rettangolo della stanza si riempie di strette linee astratte a testimoniare percorsi, tratti, tragitti, segmenti di viaggio. Xavier si muove tappa per tappa per la sua stanza, ora marciando («trattasi di tappa militare», p. 39), ora con ritmo più indolente, ora con prudenza, ora «rischiando pure di lasciaci la pelle» (p. 71), perché gli è accaduto di scivolare vicino alla scrivania.
E tutto, letteralmente tutto, diventa occasione di rêverie e di riflessione fenomenologica, fino a che il meditabondo escursionista non raggiunge apici simili a quelli di un’estasi del corpo e del concetto, a un’onnipotenza – «basta il volo di un insetto nell’aria per convincermi, e spesso […] l’odore dell’aria e non so quale incanto sparso intorno a me innalzano talmente i miei pensieri che una sensazione irresistibile di immortalità entra con forza dentro di me e non se ne va» (p. 57; interessante sarebbe, su questo punto, una riflessione accanto ad alcuni spunti proustiani). La visita del fidatissimo domestico Joannetti o lo gnaulare della cagnetta Rosine che viaggia (viaggia anche lei!) attorno alla poltrona, riportano di tanto in tanto Xavier alla realtà viva, ma anche loro, epifanie verso cui il viaggiatore sembra provare un infantile e potente thauma, diventano occasione di scoperta e di verità («ecco come durante il mio viaggio prendo lezioni di filosofia e umanità dal mio domestico e dal mio cane», p. 73). E che sfarzo, «che lusso inutile» (p. 78), appare quello delle sei sedie, dei due tavoli, della scrivania, dello specchio, dei ritratti appesi al muro… Gli ingredienti sono solo quelli dello spazio: la verticalità, che si riflette nel dualismo che divide e unisce corpo (che si distrae, che si brucia alla fiamma di una candela) e anima (che lo abita come un inquilino); le linee di fuga delle digressioni e del ricordo, l’orizzontalità come motivo di movimento e di scoperta. La sua è una spedizione come quella «degli Argonauti», «dagli abissi infernali all’ultima stella fissa» (p. 92), ma Xavier non si è mosso che pochi metri. E anzi qualche volta si dubita che sia mosso davvero.
Il tappeto come luogo
Del tappeto l’Occidente sa poco e nulla, quanto basta per suscitare il gusto di qualche collezionista, di qualche designer particolarmente sofisticato, di qualche storico dell’arte, ben più raramente di qualche fenomenologo. Ma l’Oriente no. «Fate voi stessi la prova», dice Sergio Bettini, «pregate qualche illustre maestro […] di “spiegarvi” qual è il significato e il valore artistico del tappeto orientale. Scommetto quello che volete che costui, che è tanto bravo a parlare di Picasso o di Fautrier, starà zitto; o vi dirà che non si occupa di arredamento» (BETTINI 1998, p. 224). Ma cosa c’è di peggio e di più sbagliato che relegare il tappeto a una forma di arte declassata o, come si è detto per molto tempo, a una gnoseologia inferior?
Nel ricordo di uno studioso come Taher Sabahi, che ha dedicato al kilim (antico tappeto tessuto “ad arazzo”) splendide pagine, il tappeto appare come qualcosa di estremamente diverso. «La nonna Zoleikha», racconta, «si alzava ogni mattina, puntuale, al sorgere del sole. Dopo le abluzioni rituali, ricordo che prendeva il suo finissimo kilim multicolore, quello con le bande verticali affiancate, e lo stendeva sul tappeto, vicino alla tovaglia della colazione che preparava per noi. Conclusa la preghiera lo ripiegava, per riprenderlo poi verso mezzogiorno, e ancora dopo il tramonto, ogni volta che la voce del muezzin si alzava dal minareto della vicina moschea. […] Ogni volta ripiegava il kilim in quattro parti e lo riponeva assieme al Corano, al tasbih (rosario) e alla pietra su cui poggiava la fronte mentre si prostrava a terra, come prescrive il rito sciita. Chissà se quel soffice kilim era in seta o in lana: me lo sono chiesto tante volte, dopo che ne ho perso le tracce. […] Un passato lontano, ben oltre la mia infanzia» (SABAHI 2009, p. 7).
Non solo. Oltre che luogo di un incontro con Dio, il tappeto può essere, qui, sulla dura terra, un elemento vitale. Per il nomade lo spazio ridotto del tappeto costituisce non solo un reticolo d’intensità spirituale, un’occasione di gestualità sacra e, quindi, di elevazione, ma un luogo dell’abitare. Chi infatti afferma che il nomade, per definizione, non abita (non trovando di fatto il suo luogo in uno spazio stabile), sta commettendo un grave errore. Che cos’è la tenda del nomade se non la sua casa, una casa che porta con sé mentre percorre lo spazio, proprio come la tartaruga di Bachelard, «l’animale con la casa che viaggia» (BACHELARD 2006, p. 163)? «[…] Il nomade dei deserti dell’Asia Centrale, […] dove nulla esiste che si elevi a più che pochi metri dal suolo, non può conoscere che uno spazio piatto orizzontale: quello rispecchiato dal tappeto» (BETTINI 1998, p. 233), tanto che esso, connaturato nell’essenza del nomade, risulta al di là di ogni limitazione che le estetiche e le gnoseologie occidentali possono fornire. Ed i disegni, le forme, i vivi colori del tappeto che Sabahi ricorda, testimoniati dalle fotografie di antichi tappeti a nodi e che noi osserviamo come ulteriore motivo decorativo, più che assumere su di sé una dialettica della rappresentazione, più che risultare un mero «“spettacolo” dello spazio» (p. 235) divengono, oltre la rappresentazione, oltre la logica del rimando, il tappeto medesimo. Quando siamo di fronte a simili elementi, lo spettatore (anche estetico) è costretto a violare le leggi che manifestano il tappeto come un’opera di pittura e di ricamo, per farlo diventare architettura, essendo l’architettura l’unica arte che fa coincidere lo spazio con l’opera stessa.
È concesso altro, al limite. È concesso vedere nel tappeto luogo di poetica – anche il tappeto, infatti, «ha il suo poeta» (p. 242).
La finestra sul cortile
Nel 1954 viene proiettato nelle sale cinematografiche uno dei più celebri film di Alfred Hitchcock, ovvero Rear Window (in italiano La finestra sul cortile). La trama è nota a tutti: Jeff, il personaggio interpretato da James Stewart, è costretto sulla sedia a rotelle, con una gamba ingessata a causa di una frattura. Per noia Jeff inizia a osservare, grazie all’uso di un binocolo e di un teleobiettivo, cosa accade nelle case dei suoi dirimpettai, spiando attraverso la sua e le loro finestre. A partire da queste segrete visioni Jeff comincia a conoscere le abitudini e la natura degli inquilini che abitano le case che osserva, arrivando a diventare, suo malgrado, unico, estraneo protagonista (e detective) di un misterioso delitto che ha la sua vittima e il suo assassino proprio nella gran platea di uomini e donne di cui è spettatore privilegiato.Il film ha tra le sue notissime (e fin troppo visitate) interpretazioni quella che lo vuole specchio metacinematografico del ruolo stesso del cinema, dell’occhio osservatore della camera da presa, del regista che si fa spia e voyeur (tema portato poi alle estreme, patologiche conseguenze, sei anni dopo, da Michael Powell in Peeping Tom). Perché tutto viene fatto ruotare, naturalmente, attorno agli occhi di Jeff, allungati dalle lenti dell’obiettivo e dal binocolo e, quindi, dalla finestra che fa da schermo, fa da vetrina, fa da cornice in cui avviene, quasi virtualmente, tutta la narrazione. Il paradigma platonico del riflesso sul muro, dell’inganno, della macchina duale osservante-osservato sembrano, insomma, essere il motivo magnetico (e perturbante) di tutta l’opera come metafora sempre ulteriore del ruolo dell’artista.Ma prescindendo da ogni riflessione metacinematografica, è singolare notare come il film riesca a portare la figura della finestra-vetrina a conseguenze filosoficamente peculiari. È singolare notare infatti come tutto in Rear Window riesca ad avvenire in spazi (con maestria sopraffina da parte di Hitchcock nel gestire tali spazi) tanto ridotti da risultare pericolosamente claustrofobici – claustrofobia resa ancora più fastidiosa dall’afa estiva che affatica Jeff nelle sue giornate e nottate di osservazione.Il primo spazio è la stanza, dalla quale Jeff è impossibilitato (proprio come Xavier) a uscire e che, quindi, lo isola dall’esterno. Gli unici contatti che Jeff ha con il mondo sono virtuali (telefonici), perché anche Lisa (Grace Kelly), che va a fargli visita regolarmente, è costretta a partecipare, una volta entrata nella stanza, di quel luogo angusto in cui, tuttavia, accadono così tante, strane cose. Il secondo è, naturalmente, la finestra. Avrei desiderato che Hitchcock avesse scelto di tenere la finestra di Jeff chiusa per tutta la durata del film per provare un punto – questo non poteva accadere, è ovvio, perché avrebbe comportato una perdita di credibilità e avrebbe eliminato, oltre ad altri importanti scelte teoretiche e narrative, il fondamentale elemento del caldo, che necessita ovviamente di finestre aperte –, tuttavia, anche quando viene tenuta spalancata, la finestra, con la sua cornice, diviene uno schermo o una vetrina dove, apparentemente, mai sembra essere violato l’imperativo che vuole che ciò che accade fuori dalla finestra accada, per l’appunto, all’esterno. La camera-monade in cui l’unico contatto con il mondo è virtuale perde allora il suo requisito sostanziale, che è poi quello di ogni monade che si rispetti, cioè di non avere finestre.Jeff lascerà la sua stanza solo in un momento del film, pochi istanti prima dei titoli di coda, quando uno scontro diretto con l’assassino (l’esterno che entra nell’interno, la montagna che entra dalla finestra; cfr. BACHELARD 2006, p. 95), piombato ormai nella stanza, lo costringerà a precipitare (con esito fortunatamente felice) dalla finestra stessa: è un momento-cerniera fondamentale sia per la narrazione sia per il discorso che stiamo facendo, che vuole invece che per le (quasi) due ore precedenti tutto avvenga solo all’interno della cornice della finestra e, per un gioco di stratificazioni, nelle cornici delle finestre dei dirimpettai. Non è l’osservazione in sé il punto, magari come motivo metacinematografico, ma la coppia occhio-finestra, occhio-cornice, occhio-vetrina come luogo dell’accadere del reale. Un certo esasperato empirismo sembra avvolgere questo rapporto, per cui il delitto accade, per lo spettatore in sala e per Jeff, solo nella finestra e solo perché viene, tramite la finestra e nella finestra, percepito; un esse est percipi di berkeleyana memoria, tanto che Jeff dovrà lottare con forza per scomodarsi dalla fastidiosa posizione che lo vuole spettatore immobile e unico (e quindi inattendibile, potenzialmente bugiardo), per convincere gli altri che il fatto da lui testimoniato è davvero accaduto e non si tratta di una finzione. Se Hitchcock sceglie di far cadere Jeff dalla finestra è perché fa spettare alla sua narrazione un esito tutt’altro che immaterialistico: Jeff deve violare la finestra, deve superare quel confine di finzione, di semplice credenza, di doxa e di dubbio. Solo così può provare il suo punto, solo così il mondo può riappacificarsi con un minaccioso e perturbante dualismo e la finestra non verrà più colta come un confine infausto, ma come un’apertura sul mondo. Sul mondo che c’è.
Riferimenti
G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006
X. DE MAISTRE, Il giro della stanza, La Grande Illusion, Pavia 2019
S. BETTINI, Poetica del tappeto orientale in A. RIEGL, Antichi tappeti orientali, Quodlibet, Macerata 1998 T. SABAHI, Kilim. Tessuti piani d’Oriente, Electa, Milano 2009